Lettera aperta ai Cittadini - Dott. Livio Felloni

Pubblicato il 30 agosto 2022 • Sociale

Il Dr. Livio Felloni, dopo 41 anni al servizio delle comunità di Barasso, Casciago, Comerio e Luvinate, andrà in pensione il 30 settembre prossimo. Ecco la “lettera aperta” ai suoi assistiti, ai colleghi, agli amministratori comunali e ai farmacisti dei nostri Comuni. Noi, ringraziandolo di vero cuore per la dedizione con la quale ha fatto dell’assistenza, del conforto e dell’aiuto ai pazienti la propria missione di vita, pubblichiamo le sue parole di commiato.

Comerio, domenica 21 agosto 2022

      Dopo 41 anni di attività, (in realtà con 45 anni di contribuzioni complessive considerati gli anni di riscatto della laurea ed il riscatto di 15 mesi di militare trascorsi in qualità di ufficiale medico) come medico ospedaliero prima e come medico di medicina generale poi, ho preso la difficile, molto sofferta e lungamente soppesata decisione di andare in pensione da Medico di Medicina Generale. Abbandono questo lavoro con la morte nel cuore, pensando ai miei pazienti, soprattutto a quelli più anziani con i quali in questi lunghi anni si è instaurato un legame che va ben oltre il rapporto professionale, persone che hanno cercato in me non solo il professionista a cui rivolgersi per curare i propri malanni ma molto spesso anche quella persona amica a cui confidare le proprie gioie o i propri disagi. In realtà negli ultimi anni il ruolo di medico “del paese” o ancora meglio “di famiglia” ha perso molto di quella funzione iniziale che mi aveva fatto fare la scelta, molti anni fa, anch’ essa molto sofferta, di uscire dall’ Ospedale per esercitare all’ interno dei miei paesi: ora siamo divenuti Medici di Medicina Generale e già in questa definizione si ha la sensazione di aver perso quella componente affettiva che caratterizzava da sempre il rapporto con le famiglie. La sempre maggiore sterilizzazione del rapporto medico-paziente voluta dalle normative burocratiche  imposteci da circolari sempre più costrittive ci hanno portato ad esercitare una professione che da “missione” finalizzata al bene delle persone a partire dal loro stato di salute è sempre di più divenuta  una sequela procedurale che deve seguire linee guida e percorsi diagnostici ben definiti ma impersonali, finalizzati all’ ottimizzazione delle risorse ed in ultima analisi alla riduzione della spesa per il Servizio Sanitario Nazionale. Quando da giovane medico ospedaliero guardavo i miei maestri al lavoro, invidiavo la loro capacità nel saper formulare una diagnosi basata solo sul colpo d’ occhio, il cosiddetto occhio clinico, che consentiva loro di sospettare patologie anche non comuni senza dover ricorrere a sofisticate indagini diagnostiche. In tutti quegli anni di lavoro fianco a fianco a questi affascinanti professionisti della salute, proprio come il garzone di una bottega artigiana, ho cercato di carpire i segreti di quella professione che lentamente stava diventando anche la mia, cercando di rubare i “trucchi” del mestiere che in realtà altro non erano che il segreto di Pulcinella: saper usare al meglio i sensi che Madre Natura ci aveva fornito. La vista prima di tutto per saper guardare le espressioni del volto dei pazienti e soprattutto i loro occhi, cercando di intercettare da questi “quel qualcosa che non va” che costituisce il punto di partenza della nostra ricerca clinica. Il tatto poi, non solo nel saper ricercare con le mani le patologie viscerali nascoste sotto la cute o nel saper percuotere il torace o l’addome riconoscendone i segni patologici ma soprattutto nel saper porre al momento giusto la nostra mano sulla spalla del paziente innescando quel contatto non verbale che lascia intendere la nostra comprensione e condivisione della preoccupazione che lo attanaglia. L’ udito nel saper riconoscere e interpretare i rumori provenienti dal cuore o dagli atti respiratori ma ancor di più nel saper valutare un tono di voce diverso dal solito e soprattutto nel saper ascoltare le persone in questo mondo sempre meno disponibile all’ ascolto. Forte di queste acquisizioni ottenute in anni di esperienza mi trovo ora a dovermi confrontare con percorsi diagnostici che non devono più tenere conto di questi mezzi, troppo soggettivi e non riproducibili: è oggi necessario attenersi a vie prestabilite secondo le quali solo in presenza di determinate condizioni è possibile prescrivere una indagine diagnostica o un farmaco particolare: l’occhio clinico o l’ intuito medico non fa più parte della nuova medicina che deve essere standardizzata e riproducibile. Se ciò è condivisibile in un ambiente specialistico dove il dettaglio strumentale può fare la differenza, non è per nulla appropriato se imposta “per legge” sul territorio ad un medico di famiglia. I medici della mia generazione hanno imparato a riconoscere la gravità di una condizione clinica solo guardando il volto e gli occhi di quella persona conosciuta in molti anni di assistenza, ma ciò evidentemente ora non conta più ed elegantemente ed implicitamente siamo in qualche modo invitati a farci da parte, lasciando la diagnostica a freddi strumenti di più alta precisione ed accuratezza. Ma mi chiedo: quante volte ho visto entrare in studio il signor X con “il mal di pancia” o il signor Y con una tosse stizzosa persistente o la signora Z con una tachicardia e  nessuno di questi per vere patologie organiche  ma solo perché disturbati psicologicamente dal solito litigio con la moglie, o dalla preoccupazione incontrollata per il figlio tossicodipendente, o da un recente lutto o dalla perdita del lavoro o dalla preoccupazione riguardo la malattia di un parente... In quali percorsi diagnostici avrei dovuto inserire costoro e quanto più utili invece si sono dimostrate le parole di conforto per trasmettere in loro la consapevolezza di avere di fronte qualcuno capace di comprendere i loro disagi e soprattutto disposto ad ascoltarli senza “impegnative” e senza limiti di tempo?  Il tecnicismo burocratico che vorrebbe soffocare il medico di famiglia riducendolo a mero applicatore di percorsi ben definiti mi ha sfinito come pure mi ha sfinito il dover giustificare sempre più frequentemente a molti pazienti la ragione del non poter più prescrivere loro alcuni esami o alcuni farmaci (per le ragioni sopra esposte), quasi fossi diventato improvvisamente il medico cattivo che non vuole più curare i propri assistiti. O ancora sempre di più mi pesa dover giustificare alcune mie scelte terapeutiche non condivise dall’ interlocutore/paziente o parente di paziente ( che spesso ha la presunzione di sentirsi quasi alla pari con il sottoscritto nel campo delle  competenze)  perché  si  “sarebbe aspettato ben altra terapia o ben altro esame” seguendo le indicazioni ricavate   dalle  consultazioni  di “doctor Google” e ciò  senza avere l’ umiltà di considerare che chi sta a lui di fronte oltre ad avere conoscenze senza dubbio più professionali,  ha, se non altro, decenni di esperienza clinica alle spalle. Non di secondaria rilevanza nella mia scelta la sempre più faticosa vita professionale di tutti i giorni: per riuscire a mantenere uno standard di prestazioni che consenta ai cittadini/pazienti di sentire il loro medico sempre vicino e disponibile, mi trovo spesso, dopo una giornata di lavoro che inizia al mattino di buon’ ora  e finisce in tarda serata,  a dover ancora rispondere dopo cena, alle numerose  mail ( 20 o 30 tutti i giorni) che ricevo  quotidianamente o alle telefonate rimaste inevase in segreteria telefonica; ciò per non lasciare in trepida e lunga attesa  quei pazienti che da quella risposta si aspettano la risoluzione di un loro problema. E così la giornata di lavoro diventa interminabile….

Inoltre mi pesa sempre di più non riuscire ad interrompere per qualche giorno il duro lavoro per godermi uno spiraglio di riposo ritemprante, avendo sempre più difficoltà nel trovare un giovane collega  sostituto di cui mi possa fidare ed a cui affidare, sia pure per pochi giorni, i miei pazienti (già, perché noi medici di medicina generale non possiamo interrompere l’attività ambulatoriale, che è a tutti gli effetti un Pubblico Servizio, e spetta a noi, in caso di assenza, anche per malattia,  trovare un sostituto per tutto il periodo di assenza e che noi stessi dobbiamo retribuire, di tasca nostra). Dopo tanti anni in cui le difficoltà di questo genere non erano percepite come tali e comunque superate dall’ entusiasmo che scaturiva dalla gioia di poter esercitare una professione che avevo sognato di praticare fin da piccolo, ora comincio a sentire la fatica di questi sacrifici e mi accorgo che è giunto il momento di trascorrere qualche ora in più con la mia famiglia e con le mie piccole nipotine che in questi anni ho, con scelta finora condivisa, forzatamente trascurato. Quello che più temo è che forzare la situazione non ascoltando i messaggi che continuamente il mio corpo mi invia, potrebbe compromettere anche la qualità delle mie prestazioni cliniche e ciò per me sarebbe una tragedia umana e professionale impossibile da sopportare per gli inevitabili sensi di colpa e mortificazioni che innescherebbe. Deluso dalle Istituzioni completamente assenti in tutti questi anni nelle situazioni di bisogno, (soprattutto in questi ultimi drammatici anni di pandemia nei quali avremmo necessitato di riferimenti a cui poter ancorare la nostra deriva comportamentale) ma gratificato dalla percezione di soddisfazione da parte dei pazienti riguardo la qualità del mio operato, andrò in pensione il 30 settembre prossimo e chiuderò i rapporti tecnicistico-burocratici con gli Organismi Ufficiali. Le normative  legislative sanitarie diventate sempre più farraginose, impersonali e spesso inopportune si associano ad un carico burocratico ingravescente che oltre a frustrare professionalmente  l’ attività del medico di famiglia gli sottraggono sempre più tempo a quello che dovrebbe essere invece riservato al rapporto con i pazienti e cioè alla visita medica, al colloquio ambulatoriale non scandito da tempi troppo stretti ed in definitiva alla possibilità di avere una condivisione pacatamente discussa e ponderata del miglior percorso ipotizzabile per il miglioramento del loro stato di salute. Questa situazione sta soffocando sempre di più il mio modo di “fare il medico”!

È però altrettanto vero che il mio lavoro-missione mi ha sempre affascinato ed ancor oggi sono innamorato di questa meravigliosa professione che è diventata negli anni la mia vita e di cui non potrei mai farne a meno. Continuerò quindi ad esercitare come libero professionista nei tempi e nei modi più consoni ad un “pensionato” senza più vincoli di sorta e senza gli stress legati ai molteplici impegni giornalieri ed ai limiti di tempo cadenzati da appuntamenti troppo ravvicinati. Dopo un breve periodo di riposo (credo meritato), riprenderò a fine ottobre a praticare quella attività che in questi anni mi ha consentito di poter fare il medico della persona ammalata nella sua globalità e non solo del suo piccolo segmento corporeo colpito, continuando ad applicare tutto ciò che ho appreso dai miei Maestri e che ho potuto incrementare con l’esperienza di oltre quarant’ anni di attività.

Ringrazio di cuore tutti gli Assistiti, i Colleghi, gli Amministratori Comunali, i Farmacisti dei nostri paesi e soprattutto la mia meravigliosa famiglia, tutti interlocutori preziosi, indispensabili e insostituibili che oltre ad avermi pazientemente sopportato e supportato, hanno contribuito alla mia crescita umana e professionale ed hanno soprattutto dato a me una entusiastica ragione di vita in tutti questi anni.  

                                                 

                                                                     Dr Livio Felloni